IN DISSOLVENZA
















I GIARDINI DELLA PITTURA
Fra le possibili vie dell’evocazione di immagini, ce n’è una, che accomuna le ricerche di Debora Fella e Mariangela Zabatino, che punta tutto sulla sedimentazione di tracce: frammenti di realtà che vanno a depositarsi nella memoria per essere restituiti trasfigurati nella pittura, e la cui possibile esistenza è tutta esclusivamente interna alla dimensione visiva del medium pittorico, come una vera e propria immersione in un immagina- rio vegetale e sognante che ha ragione di esistere nella pittura e per la pittura. È una delle vie che tengono più vicine questa pratica artistica alla scrittura: il tracciare segni finché la loro disposizione sul piano non va a costruire un discorso di senso compiuto, sia esso verbale e condotto su un tracciato regolare, o un groviglio più o meno intricato da cui emerge la forma di un oggetto. Il punto, però, è nello statuto ambiguo che questa raffigurazione assume su di sé, e che è tipica della narrazione visiva in genere, e di quella in cui il processo rimane visibile in particolare: se si tratta di una figura colta sul punto di concretizzarsi, fino a una messa a fuoco definitiva che gli conferisca una consistenza tattile, o piuttosto si trovi un momento prima della sua definitiva dissoluzione. È forse da preferire la seconda di queste due opzioni, o almeno porterebbe in questa dire- zione una riflessione più ampia sul contesto operativo in cui le due artiste si sono formate e le affinità elettive di lungo corso con esponenti delle ricerche aniconiche milanesi degli anni Settanta e Ottanta, dalla lezione di un grande vecchio come Mario Raciti a quella braidense di Italo Bressan, senza trascurare la militanza critica di Claudio Cerritelli, che ha molto pesato nei destini di una certa vocazione astraente in pittura. È proprio nel suo repertorio interpretativo, infatti, che si trova una delle chiavi di lettura utili per leggere in parallelo i percor- si delle due artiste: un modo di intendere la pittura colta nel suo farsi, e che suggerisce un continuo divenire della forma. Oppure, secondo una espressione cara a Raciti, si tratta de “il fare scoperto”, che lascia a vista la stratificazione di operazioni e fasi di lavoro che vanno a costituire l’opera finita. Una realtà dunque in dissolvenza, colta sul punto di scomparire, di sublimarsi in una dimensione trascendente, bruciata dalla luce o abbracciata dall’ombra, ma sempre col sentimento di un transito momentaneo nel campo dell’esistenza.