Metamorfosi
Testo di Sabino Maria Frassà, curatore della mostra di Stefano Cescon “Metamorfosi”,
30 settembre – 20 dicembre, Gaggenau DesignElementi, Roma
“Nitimur in vetitum semper cupimusque negata” (tendiamo sempre a ciò che è proibito e
desideriamo ciò che ci è negato).
Metamorfosi è il nuovo corpo di opere di Stefano Cescon, che mostra l’evoluzione della
sua tecnica pittorico-scultorea basata sulla stratificazione di cera lavorata con pigmenti e
minerali. Al centro del suo gesto e percorso artistico, vi è la volontà di superare ogni forma di
limite, arrivando ad andare oltre se stessi. Nato pittore, Cescon ha esplorato i limiti intrinsechi
dell’arte pittorica tradizionale, nel già detto e già visto. Un periodo di oscurità e blocco creativo
è stato propedeutico a questa nuova forma di arte, a cui si dedica senza sosta dal 2019.
L’artista ha perciò cominciato a dare vita a quadri scultorei stratificando diversi strati
di cera mescolata a pigmenti puri. Il colore, attraverso la cera, prende così consistenza
tridimensionale e volume. Ogni colore da lui creato in modo “rinascimentale” rappresenta un
pensiero dell’autore che, a opera finita, compone una riflessione sulla dimensione del tempo,
tema viscerale e trasversale alla sua ricerca artistica: gli strati non hanno senso da soli ma
nella composizione complessiva. Il processo messo in atto rappresenta il tentativo di far
dialogare gradienti cromatici con un’idea di scansione temporale. Ogni opera diventa così
un tentativo di dare forma a un istante infinito, non statico ma fluido, frutto di un processo
co-generativo in cui tutto è soggetto e sintesi del tempo.
Questa pratica fisica e meta-pittorica assume per l’artista i connotati di un rito quotidiano,
quasi un mantra attraverso il quale riflettere, sedimentare, sovrapporre e stratificare i propri
pensieri. Il tempo si materializza oggi più che mai attraverso l’inserimento della pietra nelle sue
opere, che formano grumi in contrasto con la superficie piana e uniforme della cera. In queste
concrezioni minerarie possiamo leggere il dubbio e il pensiero stesso dell’artista che dà forma
alla massima di Ovidio: “Nitimur in vetitum semper cupimusque negata” (tendiamo sempre a ciò
che è proibito e desideriamo ciò che ci è negato). L’autore del poema “Metamorfosi” descriveva
così l’amore tragico tra Piramo e Tisbe, ispirando tutta la cultura fino ai giorni nostri, incluso il
“Romeo e Giulietta” di William Shakespeare. Ovidio tratta un tema universale e sempre attuale:
il fascino dell’interdetto. L’attrazione verso ciò che è proibito o irraggiungibile diventa il motore
dell’esperienza umana. Ovidio non giudica, ma non fa sconti a quella che sembra essere una
condanna dell’umanità. I due amanti non vengono trasformati come in altri miti, ma il loro amore
e la loro angoscia saranno per sempre ricordati dai frutti del gelso, colorati di rosso vermiglio dal
loro sangue. Allo stesso modo, Ulisse, dopo aver superato le Colonne d’Ercole, trova sì memoria
eterna, ma all’inferno, collocato da Dante tra i consiglieri fraudolenti dell’VIII Bolgia.
Eppure, l’essere umano non può restare fermo. L’arte autentica non si accontenta di
ripetere un cliché, anche se molto amato dalla critica e dal mercato. L’artista deve evolvere
e andare avanti, oltre se stesso. Stefano Cescon si inserisce in questo solco e porta nella
sua opera la trasformazione della pietra in cera, sovvertendo il senso “ancestrale” dei miti.
Tradizionalmente, i protagonisti di tali racconti vengono trasformati in pietra o piante,
passando dalla condizione vulnerabile ed effimera dell’umanità all’eternità. Cescon, invece,
fonde le due dimensioni, dando vita a “lastre” di pietra fatte di cera e pietra frantumata,
fino a renderle irriconoscibili. Le sue sono metamorfosi al contrario, alchimie che spingono lo
stesso fruitore a ragionare oltre i rassicuranti schemi dell’arte: senza sfociare in uno stupore
ludico, nulla è ciò che sembra e oltre alla piacevolezza estetica di apparenti cieli e mari
infiniti, c’è molto di più, un concetto e un approccio rivoluzionario alla pittura, vista al di là dei
propri limiti, come metafora della nostra esistenza.
Non è un caso che tale analisi materica parta dal travertino, una pietra simbolo della
romanità. Amata dall’Impero Romano, divenne protagonista delle opere architettoniche
di Roma. I giacimenti vicini alla capitale resero semplice la diffusione del travertino, come
testimonia il geografo greco Stradone, che descrive il trasporto del “Lapis Tiburtinus” a
Roma come un’operazione facile “per terra e per mare”. Dopo l’epoca imperiale in cui fu
protagonista del Teatro Marcello (13-11 a.C.), realizzato da Augusto, e dell’anfiteatro Flavio,
noto come il Colosseo, il travertino visse nuovi momenti di splendore in epoca rinascimentale
e barocca, come testimoniano il colonnato della Basilica di San Pietro e nella Fontana della
Barcaccia in Piazza di Spagna.
Cescon continua in questo modo a nutrirsi e a fare riferimento al passato, alla “Storia”,
riflettendo instancabilmente sulla posizione dell’artista di fronte alla stratificazione di
esperienze, miti e successi dei maestri del passato. Questi, infatti, pesano tanto quanto,
se non di più, del futuro da essi inevitabilmente derivato. L’artista finisce così per meditare
sul senso dell’eternità nella contemporaneità, che può sussistere solo in ciò che facciamo
e lasciamo. Questo senso di tensione all’infinito, l’artista lo ritrova nei suoi quadri-scultura,
sempre più simili a impossibili lastre lapidee piuttosto che ai paesaggi dei primi anni. In
fondo, l’arte è un’illusione che, muovendo lo spirito, continua a vivere per sempre, diventando
un’esperienza universale. Queste concrezioni minerarie che rompono o, meglio, danno nuovo
senso all’armonia rappresentano così la firma nella storia dell’artista: non è pietra, non è cera,
non è pittura, è un nuovo vecchio pensiero donato agli altri per sempre.
“Il senso di ambiguità e dubbio tra i due stati della materia – solido e liquido – è il centro
dell’evoluzione della mia ricerca. Esso pervade una dimensione classica, quasi mitologica, per
approdare a un approccio alchemico che da sempre mi affascina. Cerca così di individuare
una terza via o un dialogo tra la cera, che può esistere sia in stato solido che liquido, e la
pietra, che rappresenta quasi un ossimoro, che muove lo spettatore a livello percettivo
smuovendolo e spingendolo a porsi delle domande” Stefano Cescon.