Laborintus

Laborintus è un rito scenico in cui convivono l’installazione artistica, la rapsodia poetica, la performance della tradizione teatrale dell’Odin Theatret e la musica per videogames. Il titolo, di sapore sanguinetiano, si riferisce alla schizofrenica pianificazione urbanistica degli spazi occupati da parte di Israele in Palestina, un intreccio di vie sotterranee, ponti sopraelevati, mura di confine, posti di blocco, in cui il cittadino stigmatizzato e identificato pericoloso è sorvegliato e schedato. Laborintus è la restituzione di un laboratorio di progettazione su controllo e liberazione in una dimensione sperimentale, di gesto performativo e non come semplice prodotto finito o saggio finale, ma laboratorio ancora in diverire.
23 Giugno ore 20:30 il rito scenico di Teatro Potlatch “Laborintus” nei giardini di Palazzo Giuliani a Labico.
“La pratica architettonica e urbanistica è stata per anni lo strumento strategico di espropriazione della Palestina, contribuendo a generare un processo di costruzione e di rimodellamento del territorio che si stringe intorno ai civili palestinesi come un cappio.”
Come evidenziato nella citazione, Laborintus è nato come spazio di ricerca sullo stato di sorveglianza e pratiche della liberazione, pensando all’architettura dell’occupazione israeliana nei territori palestinesi, orizzonte teorico sviluppato dall’architetto israeliano Eyal Weizman. Lo spazio è stato pensato attraverso un meccanismo di architettura d’emergenza, ciò facendo rientrare l’architettura nell’ordine delle pratiche di emergenza per fini militari e di difesa.
Questa schizofrenica pianificazione spaziale, che taglia i due territori laddove non potrebbero essere suddivisi, dal momento che occupano lo stesso spazio, ha creato stratificazioni spaziali in cui per esempio un linea ferroviaria israeliana viene circondata da muri per proteggere i pendolari dalla visione di campi profughi palestinesi che circondano la linea. Una molteplicità di strutture urbanistiche che si intersecano creando un labirinto in cui il minotauro è l’abitante palestinese, sottoposto a tutta una serie di meccanismi di identificazione e sorveglianza perpetua.
Laborintus è un progetto di creazione rapsodica e di installazione artistica site-specific che conclude una ricerca laboratoriale sugli spazi del controllo e della sorveglianza, occupazione e fuga, sul rapporto tra estranei e residenti, tra Coloni e superstiti che si è svolta sotto il nome di Tra-sposizioni.
Tra-sposizioni, nucleo apribile e svolgibile in più direzioni, si riferisce ovviamente al testo per etica nomade di Rosi Braidotti e pertiene poi in modo particolare alla pratica cartografica a-centrica di un laboratorio cominciato come Atla(b)s, sviluppatosi come atlante traumatologico-laboratorio-del territorio di Lab.ico, per poi perdere la sua specificità identitaria territoriale. Tra-sposizioni, tra luoghi che devono per prima cosa destituirsi della propria identità territoriale, aprirsi all’Altro che rende territori distanti connessi sistemicamente in un’elaborazione traumatica diffusa.
Tra-sposizioni, tra Palazzo Consolare, un luogo a Ferentino restaurato però dalla pratica artistica nomadica del gruppo marchigiano Officine Brandimarte nell’ambito della IV edizione del festival dell’arte nomadica; Oltre Occidente, spazio associativo a Frosinone di studi inter-culturali; Palazzo Giuliani a Labico, luogo di ingressi e ospitalità fin dal suo restauro non autoctone.
Le tra-sposizioni sono il la cornice fluida per pensare il laborintus come un laboratorio di ricerca sulla macchina moderna del controllo, sulle crescenti tecniche di schedatura e identificazione, di cui l’architettura dell’occupazione nei territori palestinesi è la metafora incarnata e palpabile.
Un trauma che il Laborintus richiama anche per il suo recente utilizzo sanguinetiano: il caotico disfarsi umano post-atomico che corrispondeva a procedure letterarie di sgretolamento del quotidiano torna circa sessant’anni dopo come spettro nella situazione di spaesamento e di inquietudine atomica attuale.
Il termine richiama immediatamente la pratica processuale, il lavoro di fatica, oltreché la commistione di materiale eterogeneo: se nella poesia sanguinetiana questo avviene come lavoro individuale sulle forme letterarie, nel Laborintus teatrale questo avviene arrotolando i molteplici temi di ricerca in un lavoro di sviluppo che si fa endosimbioticamente, cancellando l’ipotesi di un testo pre-esistente, ma disseminando il senso in una pratica che si disegna facendosi e che si consegna solo come sperimentazione in via di farsi, piuttosto che come prodotto finito, richiamandosi all’estetica del teatro-laboratorio dell’Odin Theatet, anche per la dimensione di pacifico scambio di doni tra performers Esterni e i residenti di Labico, dispositivo di teatro-potlatch che è stato manifesto nomadico della compagnia.
In questo senso il laboratorio creativo si è sviluppato in un percorso che non ha momenti privilegiati, ma un divenire che modifica fino all’ultimo il luogo dell’incontro, sconvolgendo le posizioni e i posizionamenti: il gruppo partecipante( Titania Bracaglia, Germana De Vincenzi; Francesca Giansanti; Paolo Fiorini; Anna Levoniuk; Irene Sabetta; Isabella Pulciani; Veronica Picchi; Graziella Caliciotti( diventa orchestratore del rito, cercando nel proprio gesto la danza antica che darebbe il nome al Labirinto( K.Kerenji); il laboratorio disinnesca il regista ospitando la pratica laboratoriale del regista di Assisi Samuele Chiovoloni, che dirige il Teatro degli Instabili e qui crea il luogo per uno sposizionamento per l’ascolto dell’altro nel workshop Non dalla mia parte, una ricerca attoriale di profondo ascolto dell’altro in sé; ospita il poeta e performer Fabio Orecchini come officiante inaugurale dell’Ungrounding, un processo di esumazione che consente alle correnti sotterranee inorganiche di riequelibrare gli scompensi tra vegetazione e Architettura, riappropriandosi dello spazio razionale-architettonico per il diffondersi dei nematodi, i Nemat dall’omonimo testo poetico di Fabio.
Passa per il workshop di scrittura su Kafka: Apologo e fuga, diretto dallo scrittore e editor Giammarco Pizzutelli per creare una mappa dei luoghi della sorveglianza e del potere burocratico e dei poteri di destituzione dell’io e della deterritorializazzione come linee di fuga che destrutturano la macchina.
Infine, prima della restituzione, diviene luogo di cartografia nel workshop Taccuini di Fuga- Disegnare gli spazi del controllo, curato dagli artisti Giampaolo Parrilla e Matteo Gobbo, anche scenografi per la restituzione finale.
Matteo Gobbo ha creato cinque maschere archetipiche, che simbolizzano i condizionamenti esterni e una serie di colonne con megafoni in materiale povero, su cui sono spruzzate dosi di poliuretano, che evidenziano la contaminazione che esiste tra sistemi di registrazione razionalistici e brutalmente tecnici e le storie che questi sistemi registrano. Le macchine si infettano di storie vissute e dei corpi vissuti sottoposti a controllo. Giampaolo Parrilla ha dipinto degli stendardi che richiamano l’utilizzo di apparecchiature tecnologiche di sorveglianza, utilizzate in ambito militare.
Il workshop consegna un semplice taccuino ai partecipanti, per documentare sketch che evidenzino in quali dettagli il palazzo comunica sentimenti di controllo e di oppressione spaziale, dove esso richiami la dogana e la violenza della soglia, che identifica Appartenenti e Stranieri, si deposita nei corpi dei discriminati.
Infine, come luogo di coesione tra parti dis-connesse è stato scritto un testo, il Laborintus, Canto I del nuovo ciclo Ciclo di Ankh direttore creativo del progetto Danilo Paris.