THE ITALIAN ART GUIDE

Eocene

 

Eocene

Dal 31 Agosto al 29 Settembre alle ore 15 nel Mercato Romano di Ferentino, in via Don Giuseppe Morosini 14, nell’ambito di Nòstoi, IV edizione del festival dell’arte nomadica.

mostra nel Mercato Romano

a cura di Nicola Nitido  e Danilo Paris

È vero che ci guardammo nell’ombra, di Eleonora Cutini

140 x 140 cm / dimensioni variabili Collage digitale, stampa su tessuto in nylon

La tomba di Remo, di Joshua Goode

Cartocci commemorativi, di Luca Grossi

Tecnica mista( disegni, materiali fotografici, luci, etc) 50 x  30 cm

Ascolta l’emergere del mio grido disperato

dal fondo delle strettoie carcerarie del buio,

dalle cloache torbide di questo basso mondo

ascoltami, o Dio onnipotente e senza pari.

Lacera questo velo di tenebra, lacera

questo velo nero che avvolge la mia figura

e forse dentro al mio petto scorgerai

l’origine della mia perdizione, il mio peccato.

(Da Io parlo dai confini della notte, Forough Farrokhzad)

Emergono dalle tenebre della memoria strati non esplorati della coscienza. Nello scavo stratigrafico memoriale, Eocene è il luogo etimologico di una “nuova alba” o forse di un’alba possibile che non è mai avvenuta. Eocene è quel limbo geologico in cui secondo Gould per un momento la gara alla sopravvivenza avrebbe potuto oscillare dalla parte degli uccelli di grandi dimensioni che lo abitavano, a discapito dei mammiferi e dunque, dell’uomo.

Questo periodo lontanissimo diventa metafora di un linguaggio artistico che esplora le forme dell’emersione e le modalità in cui l’attività memoriale, scavando, lavora creando nuovi immaginari, lacune, falsi ricordi. Le immagini-ricordo, infatti, sono “immagini”, come scrive Deleuze, non ricordi puri, sono il moto di emersione che la coscienza innesca, attraversando falde di passato e di futuro. Come la casa dei ricordi invocata da Rilke, un ricordo è qualcosa fatto di frammenti, che non esiste più. Farvi ritorno significa movimentare il mondo delle spettralità, quasi-immagini che non hanno mai piena consistenza.

 In seguito non ho mai più rivisto quella strana dimora.. Così come appare nei miei ricordi d’infanzia è un edificio, ma è completamente fusa e distribuita dentro di me: una stanza qui, un’altra là e qui un tratto di corridoio, che non collega fra loro queste due stanze, ma si conserva in me come un frammento. E’ così che tutto è sparso in me, le camere, le scale che scendevano con cerimoniosa lentezza, altre scale, gabbie anguste che salivano a spirale e nella cui oscurità si avanzava come il sangue nelle vene.

L’immagine in cui abita Rilke fonde il ricordo con le reveries, essa conduce verso stanze che si aprono familiarmente per poi accompagnare verso corridoi ciechi e sconosciuti. La casa natale, scrive Bachelard, è costruita sulla cripta della casa onirica. Emerge l’immagine di una casa mobile, i cui contorni non sono ritagliati, ma si compongono di ampliamenti e sezionamenti possibili, una casa che può essere pensata distesa in una cartografia errante, in una planimetria che assomiglia più a delle vedute di città disparate, in cui i corridoi sono disegnati come strade che conducono in territori sconosciuti.

Il mercato romano di Ferentino diventa spazio-soglia metaforica di quest’abitazione fluttuante, proprio  in quanto luogo di rovina e spazio storico delle transizioni, dei passaggi e degli scambi. Se l’inconscio si forma proprio in seguito al processo di rimozione, come scrive Freud, il Mercato Romano, luogo archeologico proveniente da un altrove non più esistenti è uno dei luoghi archetipali, fondativi dell’inconscio spaziale della città di Ferentino. Il Mercato è un luogo in rovina e come tale, si apre ai concetti di incompletezza, frammento e stratificazione, tipici del sogno, che presenta molteplici temporalità, geografie scombinate, spazi non-euclidei, anacronismi, infrazioni al principio di non-contraddizione e confutazioni del concetto di identità, spostamenti, amnesie, afasie, condensazioni: nel sogno a=b, a=non-a, Io= altro.  La rovina è, come scrive Derrida, nella sua incompletezza, “apertura”, “esperienza del possibile”.

In questa rovina-possibilità, in quest’alba Eocenica, È vero che ci guardammo nell’ombra, di Eleonora Cutini, esplora il momento di emersione dell’immagine-ricordo di un luogo apparentemente familiare, il luogo di un ritorno a qualcosa di intimamente già perso. paesaggi raffigurati non sono reali, ma al contempo familiari a cui sentiamo di appartenere. L’immagine funge da mediatrice tra corpo e memoria, conducendo lo spettatore a compiere un cammino a ritroso all’interno di un mondo apparentemente assopito all’interno del proprio sé. I luoghi della rovina, nel loro stato di incompletezza, sembrano contenitori di eventi memoriali, spazi di macerie, che sembrano riflettere la frammentazione dell’esilio, lacunoso abbastanza da poter lasciare spazio per pezzi di memoria. Strutture che combinano le relazioni del familiare con il perturbante, che Gaston Bachelard ha chiamato “spazi dimenticati”, spazi dimenticati, che ritornano con un aspetto misterioso.

Proprio su questi spazi dimenticati e i blocchi memoriali operano i Cartocci Commemorativi di Luca Grossi, un insieme composito di elementi di scarto, bozzetti, piccoli provini pittorici e rimanenze fotografiche riassemblate come incarti floreali.  L’oggetto di queste emersioni sono intime memorie di persone conosciute della famiglia dell’artista. Queste “restanze” o “ritornanze” hanno tanto più significato nel contesto del Mercato Romano, andandosi a infilare insieme ad una macrostoria di abbandoni, commerci e memorie oggettuali che nello spazio del mercato hanno avuto luogo, insieme alle memorie degli sfollati rifugiatisi tra queste macerie durante la seconda guerra mondiale. Il suo tentativo di rimettere insieme ciò che il tempo inevitabilmente fa scomparire invoca il potere dell’archivio e delle immagini-traccia, archivio come archeion, dimora e comando.

L’immagine-lacuna è un’immagine-traccia e un’immagine-sparizione al tempo stesso. Qualcosa resta, qualcosa che non è la cosa, ma un lembo del suo aspetto, della sua somiglianza. Qualcosa resta del processo di annientamento: quel qualcosa, dunque, testimonia di una sparizione e al contempo resiste a essa, diventa l’occasione di un suo possibile ricordo, di una possibile memoria.

In questo procedimento quasi infantile di riassemblaggio del ricordo nella forma quasi di “icone giocattolo”, Luca Grossi sembra quasi contravvenire a quel mal d’archivio invocato da Derrida, nel “non cessar mai, interminabilmente, di cercare l’archivio là dove esso si sottrae. È corrergli dietro là dove, anche se ce n’è troppo, qualcosa in lui si anarchivia.”

Un archivio che arriva a cancellarsi, si presenta trasparente ed accessorio e in tal modo si presenta da solo. Questi incarti possono annullare l’archivio per restituire l’impressione del passo nella cenere. Il sogno di questo “luogo insostituibile, la cenere stessa, dove l’impronta singolare, come una firma, si distingue appena dall’impressione”. Una commemorazione che forse riassembla o mantiene nella sua indivisibile frammentarietà una casa degli affetti.

Questa casa lontana, perduta, non ci abitiamo più; siamo, ahimè, certi che non la abiteremo mai più. Eppure, essa è più che un ricordo. È una casa dei sogni, la nostra casa onirica››

Antony Vidler, nel suo studio sul perturbante architettonico precisa che ‹‹tale casa dei sogni, una costruzione mentale che comprende tutte le case finora abitate o abitate in futuro, non è da ricercare nel presente.››

Bachelard afferma che la casa sarebbe, tra tutte le cose, ciò che più facilmente può essere evocato, al punto che, come dice Pierre Seghers, in Le domain Public, la casa natale “si conserva nella voce”, con tutte le voci che si sono spente:

Un nome che il silenzio e i muri mi ripetono                                                                              

Una casa dove vado, solo, chiamando,                                                                                     

una strana casa che si conserva nella voce                                                                                           

e che abita il vento.

Questa esperienza vocale dell’abitare è di certo rincuorante: si dice, basterebbe un po’ di vento e un po’ di fiato per dare immagine alla casa lontana, la casa dove ancora si affaccendano i suoi abitanti, le sue cameriere, i pranzi e le pulizie domestiche, le sue riverniciature e i festosi terremoti invocati dalla ridisposizione spaziale degli oggetti e del mobilio. Questa vocazione della voce a far apparire le cose perdute e in special modo, come abbiamo detto, la casa perduta, è la vocazione di queste commemorazioni a forma di cura, questi incarti topologici degli affetti e delle cose amate.

L’archivio diventa una archeologia impossibile di questa nostalgia, a questo desiderio doloroso di un ritorno all’origine autentica e singolare, e a un ritorno preoccupato di render conto ancora del desiderio di ritorno: di se stesso. Archivio e archeologia, che declinano l’Arché in due modi distinti.

E invocando l’archivio, invochiamo l’archeologia dell’artista successivo. Appositamente pensata e concepita per una delle nicchie del criptoportico di Ferentino, Joshua Goode presenterà un’installazione site-specific, intitolata la Tomba di Remo.

Pensando – agendo – come un archeologo, Goode realizza ogni suo nuovo intervento come se fosse uno scavo archeologico, documentando e riportando gli avvenimenti nel suo giornale personale, parte integrante della sua pratica artistica.

Ed è effettivamente come un’emersione di reperti da uno scavo archeologico, la tomba possederà i resti scheletrici di Remo presentata con altri tesori funerari come i bronzi, memori di una fattura più antica; e altri, provenienti da uno studio di iconografie pre-Etrusche di Romolo e Remo.

Queste statuette offrono il punto di vista più adatto sulla doppia natura identitaria dei gemelli, mezzi lupi e mezzi uomini. E’ dalla fine, dall’emersione, che si comprende l’origine e il mistero della vita. Come un primo vagito che diventa subito sopravvivenza e resistenza alla morte, la tomba di Remo è un viaggio, un incantesimo per una riscoperta alle origini, servito con un pizzico di provocazione.

L’installazione è pensata con la presenza di reliquie funerarie e altre statuette votive, che saranno lasciate come strumento interattivo e di fruizione dell’opera, possibile per i visitatori che saranno dunque i partecipanti di questo processo attivo di riscoperta e di documentazione. E’ dunque giunta una nuova era per pensare ciò che era prima.

 

Eocene
31 Aug, 24
29 Sep, 24
Luca Grossi, Joshua Goode, Eleonora Cutini
Nicola Nitido, Danillo Paris
Danilo Paris, Nicola Nitido
Via Don Giuseppe Morosini 14
Materia Creativa
Sos Mediterranee, Assopace Palestina, Comune di Ferentino, Provincia Creativa, Arcigay Stonewall