I dodici ritornelli
















Tutto comincia da un’altra opera, da un gesto minimo ma determinante. Nella performance Counting time 1.3, Crissi Campanale, per 3 ore e 21 minuti, ha riportato su carta lo scorrere del tempo: secondo dopo secondo, una serie pro- gressiva di numeri da 0 a 59. Un gesto che si disgrega nel corpo e allo stesso tempo lo ancora, lo riporta al tempo carnale. Un esercizio di presenza dove ripetizione e arresto sono le uniche azioni possibili. La ripetizione crea una sorta di ordine divino, come nella recita del rosario. Il numero per l’artista è una scrittura silenziosa, un’unità della forma intervallata da una pausa, ma c’è anche una potenzialità sonora nell’opera, nello scandire mentalmente i numeri c’è una voce, quella dell’artista, ma anche quella del fruitore che osserva e legge.
I dodici ritornelli, il nuovo lavoro per Esposizione Sud Est, prosegue e radicalizza questa indagine attraverso la pratica del disegno come forma di concentrazione, caratterizzata da due aspetti: la velocità di esecuzione e la ripetizione. La parete centrale dello spazio è ricoperta da circa cento disegni, ognuno eseguito a china, grafite e spray su carte raccolte, sopravvissute: carta da macellaio, fogli usati, frammenti trovati. Ogni foglio è un’unità autonoma, ma è nella moltiplicazione seriale di dodici soggetti che il lavoro trova il suo senso profondo: un esercizio, come in Counting Time, di variazione nel tempo.
Il titolo della mostra richiama direttamente il concetto di “ritornello” così come elaborato da Deleuze e Guattari in Mille piani: non solo un motivo che si ripete, ma un gesto ordinatore, una modalità attraverso cui il caos viene temporaneamente territorializzato. Ogni disegno, nel suo farsi ritorno del medesimo, costruisce un fragile ordine, un centro temporaneo che apre lo spazio alla possibilità di trasformazione.
Dodici soggetti – Il battesimo, L’albero, La parola, Il dono, La visione, L’orante (verticale) , L’orante (orizzontale), Il sole, La luna, Le due teste, I doppi, I cicli– che ritornano ossessivamente. Immagini che sembrano emerse da un atlante dimenticato o da un codice rituale. Poi, l’acqua: ogni foglio viene immerso. Il segno penetra nella carta, la carta assorbe il disegno come una pelle, una reliquia. Non c’è più superficie, ma solo materia. Anche il corpo dell’artista è implicato in questa trasfigurazione. Una contrapposizione tra il tempo accelerato del segnale e il tempo lento della carne. Il disegno diventa così una scrittura fatta di spasmi sottili, di mani che ritornano giorno dopo giorno alla stessa figura.
Ogni immagine ospita un piccolo universo simbolico: antiche figure umane, il sole, la luna e le stelle emergono tra le linee sporche e umide come segni di un tempo originario. In questa grammatica visiva, Crissi sembra rimandare all’immaginario del Mul.Apin, il compendio astrologico e astronomico dell’antica Mesopotamia, un codice divinato- rio dove l’osservazione celeste si intrecciava alla narrazione del destino.
L’intero lavoro si pone allora come un gesto di resistenza poetica: un ritorno al disegno come pratica arcaica, di nar- razione profetica e di costruzione di senso fuori dal tempo lineare.