THE ITALIAN ART GUIDE


Spazi con il margine di dubbio

Dobroslawa Nowak parla con Claudia Sinigaglia delle sue esplorazioni urbane a lungo termine, viaggi oltreoceano che stimolano pensieri nuovi e progetti che non vogliono limitarsi a un unico mezzo.

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Dobroslawa Nowak: Viaggi molto. Oltre che in Europa, hai realizzato progetti in Giappone, Hong Kong, Russia, U.A.E., e altri paesi. Viaggi per realizzare i progetti o realizzi i progetti per viaggiare?

Claudia Sinigaglia: Credo che le cose non siano separate. Se non mi piacesse viaggiare, forse non viaggerei per fare i progetti. È un modo di esplorare nuove prospettive, e mi permette di confrontarmi con una struttura culturale e di pensiero diversa da quella a cui sono abituata. Diciamo che questo incontro con nuove realtà mi permette anche di ripensare i miei schemi mentali. E da questo spesso nascono dei lavori o dei progetti che magari non avrei realizzato se fossi rimasta a Milano, nella mia comfort zone.

D.N.: Viaggiare ti aiuta a evocare in te cose che altrimenti non sarebbero nate?

C.S.: Probabilmente sì. E soprattutto, mi aiuta a mettere in discussione il mio stesso punto di vista. In qualche modo, viaggiare costringe a ripensare le proprie abitudini confrontandosi con culture completamente diverse.

D.N.: Della tua serie recente, “Tracing Dreams” (2023-2024), scrivi che “questo progetto fotografico è una random walk in una dimensione onirica che esplora il confine tra reale e immaginario.” In una versione vagabonda, tu, calata nella città sconosciuta, ti permetti un’esplorazione talmente libera, che ti lascia osservare l’ambiente approfittando da una “narrazione frammentata, composta dagli appunti visivi, glitch fotografici, paesaggi reali che sembrano irreali, paesaggi immaginari che sembrano veri e grafici di random walk generati dall’intelligenza artificiale”. Vorresti aggiungere qualcosa a riguardo?

C.S.: Sì, diciamo che l’idea di lavorare con il concetto di sogno è nata esplorando la città di Dubai dove ho partecipato a una residenza artistica a fine del 2023 – un artist exchange tra Bayt AlMamzar e Viafarini – che mi ha permesso di conoscere più da vicino questa città. Durante la mia permanenza lì, ho approfondito alcune letture e ricerche accademiche che esplorano il tema della rappresentazione e della percezione della realtà. Quello è stato un punto di partenza per riflettere sul concetto di sogno nelle sue varie declinazioni e su come le narrazioni modellino la nostra visione di un luogo. Il confine tra le due cose è spesso labile, e volevo indagare questa tematica in relazione a una città che è radicata nell’immaginario per la sua dinamicità e innovazione, e che vissuta da vicino si rivela una città stratificata, complessa, cosmopolita e in continua trasformazione, in cui convivono molteplici identità.

“Tracing Dreams”, Claudia Sinigaglia, cortesia dell’artista;
“Tracing Dreams”, Claudia Sinigaglia, cortesia dell’artista;

D.N.: Cosa desideri trasmettere al pubblico con il progetto “Tracing Dreams”? O forse il bello di questo progetto nasce principalmente dalla libertà che hai incontrato?

C.S.: Più che affermare qualcosa, è un lavoro che si sviluppa attraverso interrogativi. Un tentativo di mettere in discussione quello che consideriamo reale e quello che consideriamo frutto dell’immaginario, o una fantasia, perché tutte queste cose sono spesso sovrapposte. Con questo lavoro parto da una documentazione fotografica per arrivare a delle immagini in cui soggetti originari diventano irriconoscibili.

D.N.: In “Tracing Dreams” hai “smontato,” messo in discussione la realtà di una città, mentre nel tuo progetto precedente, “Study on Invisibility” (2023), tocchi il tema ancora più vasto dell’immagine stessa. Richiami una ricerca sulle principali tattiche di camouflage e occultamento, evanescenza, persistenza e la trasformazione dell’immagine in un’epoca permeata dal digitale. Come noti, “il tracciamento non riguarda solo i dati che condividiamo consapevolmente, ma si estende a una rete complessa d’informazioni generate dalle nostre interazioni e connessioni sociali.” Il tema è attuale e stimolante. In cosa consiste questo progetto in corso? Vuoi raccontarci questa ricerca?

C.S.: “Study on Invisibility” è un work in progress, un lavoro che indaga il tema dell’invisibilità partendo dalla fotografia, ma che si estende anche a una ricerca teorica. Nel contesto attuale ci confrontiamo sempre più frequentemente con un tracciamento digitale che può diventare anche molto invasivo. La possibilità di accedere alla metropolitana o di comprare una bottiglietta d’acqua attraverso un sistema di face scan è una tematica che trovo interessante approfondire, anche in relazione ai sistemi di l’intelligenza artificiale sempre più diffusi e in grado anche di profilarci. Basti pensare alle possibili applicazioni dei sistemi di AI in ambito HR o ai sistemi di social scoring che troviamo ad esempio in Cina. E tutte le tracce che noi lasciamo online, nel digitale, che a noi magari sembrano…

D.N.: …irrilevanti…

C.S.: Sembrano irrilevanti, esatto, perché non hanno una consistenza fisica, in qualche modo, ma sono molto presenti e a volte sono dati che rimangono archiviati per lunghissimo tempo, se non per sempre, e quindi c’è questa dualità diciamo del digitale, che da un lato è immateriale e sembra non esistere, ma dall’altro diventa sempre più rilevante e con effetti tangibili nelle nostre vite.

D.N.: Il progetto fotografico è però composto dalle immagini delle persone sfocate, e sembra non coprire in pieno la tematica di cui parli.

C.S.: Il mio lavoro parte dallo spazio fisico per interrogarsi sulla condizione dell’invisibilità e sulle possibili tecniche di camouflage. Il lavoro comprende una raccolta di fotografie di figure ritagliate da immagini di folle. Mescolarsi a una folla di persone può essere una tecnica di mimetizzazione perché è più semplice passare inosservati se si è parte di un gruppo di persone. Così ho iniziato questa serie di fotografie isolando immagini di figure sfuggenti. Anche il movimento nella fotografia contribuisce a rendere invisibile il soggetto. È una raccolta di immagini in cui la figura umana scompare e in qualche modo pur essendo presente non è visibile.

D.N.: Alcune delle tue ricerche sono a lungo termine. “Untitled”, per esempio, è un lavoro che sviluppi dal 2017. È una serie di disegni che raffigurano situazioni di affollamento in varie location pubbliche, come vernissage, concerti, spiagge, Time Square o museo Guggenheim.

Scrivi che questo lavoro “esplora la possibilità d’individuare schemi comportamentali generali e pattern ricorrenti, rappresentabili anche attraverso algoritmi”. Ammetti che “sebbene sia impossibile prevedere il comportamento di un singolo individuo a causa delle variabili fisiche, emotive, cognitive e sociali che lo influenzano, le persone in gruppo spesso mostrano comportamenti simili a particelle in movimento in un fluido.”

Indagando queste tematiche da oltre otto anni, trovi qualche riferimento al tuo trovarsi/sentirsi/essere nel mondo? Ti senti più un’osservatrice o una particella della folla?

C.S.: Mi sento più una particella, che cerca di prendere consapevolezza dello spazio in cui si trova. Questo lavoro era nato da alcune ricerche legate all’architettura. Avevo visto dei modelli algoritmici utilizzati dagli architetti durante la progettazione degli spazi pubblici. Questi modelli servivano a prevedere come le persone si sarebbero mosse all’interno dello spazio nei momenti di sovraffollamento o in situazioni particolari.
Così ho iniziato a riflettere sulla prevedibilità dei nostri movimenti. Poi in qualche modo questi meccanismi si ritrovano anche in altri contesti, se pensiamo ai flussi di informazioni che ci troviamo a seguire sui social media. Viviamo in un mondo che è sempre più polarizzato. Questa serie di disegni parte dall’architettura, per riflettere anche su come ci muoviamo e come pensiamo all’interno di una comunità, di un gruppo e anche nello spazio delle città. Ma è anche in qualche modo un diario di alcuni luoghi molto affollati in cui mi sono trovata, e nei quali non sempre mi sento a mio agio, forse anche un modo di registrare queste situazioni.

D.N.: Capire e controllare.

C.S.: Ricerca di consapevolezza.

“Untitled (Central Station)” (sinistra), “Untitled (Guggenheim)” (destra), Claudia Sinigaglia, documentazione Alessandro Zambianchi, cortesia dell’artista;

D.N.: Oso notare che il progetto si è presentato in una forma più figurativa già nel 2015, come “Untitled (Collective Behavior)” dove osservi e fotografi le situazioni collettive e casi di aggregazione incontrati.

La serie fa parte di una ricerca che, come scrivi, “attraverso le immagini e attraverso l’approfondimento di altre discipline come la sociologia, l’antropologia e il management, ambisce a sviluppare una riflessione sulle abitudini, i processi di cambiamento e, in alcuni casi, gli algoritmi che costituiscono o descrivono la nostra contemporaneità.”

C.S.: Sì, è vero. La mia ricerca si basa sulla fotografia e a volte si sviluppa anche attraverso altri mezzi, come il disegno. La fotografia è spesso un primo step di osservazione di quello che mi sta intorno.
Arrivavo da alcune esperienze che mi avevano portata ad approfondire lo studio di diversi modelli manageriali, e riflettevo su come i nostri comportamenti possano essere influenzati dal contesto che ci circonda. Questo può succedere a livello psicologico, ma spesso è un meccanismo che si ritrova su diverse scale e contesti.

E quindi, sì, la fotografia, anche in questo lavoro, era un primo step per formalizzare questo pensiero, ma c’è anche una riflessione sul confine molto labile tra casualità e quello che invece non è casualità, perché – in questa serie di fotografie – i gruppi di persone sembrano disporsi in coreografie, quando invece si tratta soltanto di una situazioni dettata del caso.

Quindi c’è anche questo aspetto da considerare, che ci troviamo spesso di fronte a statistiche, visualizzazioni e analisi, che mostrano un’interpretazione del mondo e che danno una lettura della contemporaneità ma ci sono anche un sacco di casi di correlazioni spurie; casi di diverse dinamiche, che sembrano essere collegate tra loro, ma che in realtà non hanno alcun tipo di correlazione.

“Untitled (Collective Behavior)”, Claudia Sinigaglia, documentazione Alessandro Zambianchi, cortesia dell’artista;
“Untitled (Collective Behavior)”, Claudia Sinigaglia, documentazione Alessandro Zambianchi, cortesia dell’artista;
“Untitled” (sinistra) e “Untitled (Collective Behavior)” (destra), Claudia Sinigaglia, vista della mostra, documentazione Alessandro Zambianchi, cortesia dell’artista;

D.N.: Un film scandinavo intitolato “Storie della cucina” (“Kitchen Stories,” 2003) ritrae una ricerca di un gruppo di scienziati che vogliono capire quali sono gli movimenti esatti delle persone nella vita privata delle loro case, precisamente nelle loro cucine. Per fare le analisi dettagliate, uno scienziato entra in una casa di un volontario circa sessantenne, si arrampica a uno sgabello alto fino al soffitto nell’angolo della cucina e da ora in poi, come indicato nel contratto di collaborazione, non scambiano più la parola. Alla fine però, questo osservare scientifico diventa una storia di un’amicizia tra due uomini solitari nella mezza età.

Parlando del film, passiamo ai paesaggi con le riprese simmetriche e colori pastello – simili a questi di Wes Anderson – nella tua recente serie di fotografie “Rainbow Box 2025” realizzata in Asia.

Choi Hung Estate è un complesso residenziale di Hong Kong costruito negli anni ‘60, progettato per ospitare quasi 43.000 persone. All’epoca della sua apertura, rappresentava il più grande progetto di edilizia pubblica della città. Nel corso del tempo, questo complesso residenziale è diventato un’icona visiva. 

Choi Hung, che in cantonese significa “arcobaleno”, evoca un’immagine di armonia in una costruzione narrativa che sovrappone architettura funzionalista, le sue sfide sociali e limitazioni. “Rainbow Box” (2025) è una serie fotografica che esplora Choi Hung Estate come uno spazio narrativo, un archivio stratificato di memorie collettive e personali che incorpora le contraddizioni dello sviluppo urbano contemporaneo. Vorresti parlare delle contraddizioni che hai in mente?

C.S.: In realtà a Hong Kong ci sono molti complessi residenziali così ad alta densità abitativa, però questo mi aveva colpito in particolar modo per essere diventato un’icona visiva per via del suo aspetto “scenografico” di tinte pastello, creando un contrasto con le problematiche che caratterizzano questo tipo di architettura.
Tutti questi complessi residenziali che sono costruiti pensando alla funzionalità portano con sé molte sfide prima di tutto per le persone che lo abitano. Spesso gli spazi non sono sufficienti e le persone si trovano a vivere in condizioni abitative non sempre ottimali. Questa è una cosa che ritroviamo spesso nelle grandi città.
La città nel mio caso è sempre stata un luogo che ho considerato fondamentale per il mio percorso. Non sono mai riuscita a immaginarmi di vivere altrove. Le città ti possono offrire moltissime opportunità, dall’altro lato però possono anche toglierti spazio. Forse questo è uno dei motivi per cui ho sempre trovato interessante esplorare questi complessi abitativi progettati e costruiti per tantissime persone, con serie di spazi uguali tra loro. Ma ogni persona che abita questi luoghi ha delle esigenze e delle abitudini diverse. Questa serie fotografica ritrae queste architetture modulari ma anche momenti di vita quotidiana: cibo che viene essiccato al sole, lenzuola appese nei cortili condivisi e le persone che aspettano. In un certo senso, questi spazi standardizzati, nel momento in cui incontrano la realtà delle persone che lo abitano, si trasformano.

“Rainbow Box”, Claudia Sinigaglia, cortesia dell’artista;
“Rainbow Box”, Claudia Sinigaglia, cortesia dell’artista;
“Rainbow Box”, Claudia Sinigaglia, cortesia dell’artista;

D.N.: Altra città che hai visitato è Kudrovo, che è anche il nome del progetto realizzato nel 2018. “Kudrovo è una città satellite nel distretto di Vsevolozhsky, adiacente alla città di San Pietroburgo. Nel 2010 era un villaggio con una popolazione di poco superiore a 100 abitanti. Successivamente, è iniziata un’intensa attività di costruzione di grattacieli residenziali e gli appartamenti sono stati venduti a persone che avevano un lavoro nella vicina San Pietroburgo. Secondo i recenti censimenti, la popolazione di Kudrovo si aggira intorno ai 60.700 abitanti ed è composta da sette complessi residenziali, ognuno dedicato a una capitale europea. Al centro di ciascun blocco abitativo sono presenti attività ricreative verdi, con scuole, asili e servizi.

Il modo in cui descrivi il progetto suggerisce che fai una pura documentazione di una città, facendo ricordare che la fotografia è un mezzo freddo. Guardando gli scatti si potrebbe anche pensare che è solo un modello ipotetico della città progettata e mai costruita. Secondo te, quale è oggi il valore di questo tipo di fotografie documentarie? O forse non percepisci questo progetto come documentario e vedi altre qualità alle quali io non mi ero focalizzata?

C.S.: Sì, questo è un progetto di natura documentaria, come anche quello su Choi Hung Estate. È un lavoro di documentazione, una ricerca che mi interessa continuare a sviluppare. Ho ritratto alcuni complessi residenziali e quartieri anche a Milano, piuttosto che in altre città. È più un’esplorazione. Il progetto su Kudrovo è stato realizzato durante una residenza a Pushkinskaya Art Center, a San Pietroburgo. Volevo esplorare i sobborghi e le periferie della città.

“City Pattern”, Claudia Sinigaglia, cortesia dell’artista;
“Kudrovo”, Claudia Sinigaglia, cortesia dell’artista;

D.N.: È stato uno schizzo per te, un’introduzione alla ricerca più complessa?

C.S.: Si trattava di una città satellite che era stata costruita nel giro di pochi anni, al posto di un villaggio. Volevo documentare questa realtà con palazzi ad alta densità abitativa, costruiti su modelli consolidati che sembrano continuare a replicarsi. Il mio interrogativo è sulla possibilità o meno di ripensare le nostre città e i nostri modelli abitativi.

Questo tipo di strutture si ritrovano in moltissime metropoli del mondo, il mio è un processo di documentazione, una ricerca che porto avanti nel tempo, attraverso una serie di reportage di questi luoghi che sembrano quasi surreali.

D.N.: Secondo te, qual è, a oggi, il valore delle immagini documentarie? Se non fossero parte della tua ricerca personale, cosa significherebbe quando tutto è già documentato? O forse sbaglio e non lo è?

C.S.: Credo che il percorso per arrivare a una determinata immagine possa fare la differenza. Nel mio caso vedo la documentazione di quella situazione specifica più come un tassello di un progetto più ampio.

D.N.: “City Pattern” (2018-in corso) e “Sitting Room” (2018) sono le serie di fotografie più sensibilizzate agli abitanti degli spazi urbani. Nella prima, dove ritrai casi di urbanistica ad alta densità, ti impegni “nell’esplorazione di metropoli e periferie, sleeping districts e città satellite in diverse parti del mondo come Tokyo, New York, San Pietroburgo, Taipei e Dubai, creando una collezione di schemi e ripetizioni.” Nell’altro progetto, “Sitting Room”, parli di come i luoghi pubblici vengono trasformati in spazi familiari attraverso storie di vita individuali e collettive. 

Questa serie di fotografie ritrae effetti domestici che diventano “arredo urbano” ed esplora i confini tra sfera pubblica e privata. Disposti all’esterno delle case e delle porte dei negozi, questi oggetti diventano la traccia di storie personali. “Sitting Room” indaga il carattere degli spazi abitati soffermandosi su situazioni temporanee.

È stato il tuo ultimo progetto così vicino alla vita delle persone negli ultimi anni. La tua ricerca è diventata sempre più astratta e distaccata da questo iniziale interesse di un umano nella città. 

Osservando questo processo, dove pensi di ritrovarsi artisticamente in alcuni anni? 

C.S.: I miei progetti si sviluppano anche in relazione al contesto in cui mi trovo. In quel caso, era un progetto sviluppato durante un programma di residenza in Cina, nel 2018, quindi prima della pandemia.

Camminando per la città, capitava di trovare allestiti sui marciapiedi dei “salotti” temporanei con sedie e tavolini, con famiglie o gruppi di amici che si trovavano a mangiare ravioli o a giocare a dama cinese, “appropriandosi” della città e trasformando lo spazio pubblico in un ambiente quasi domestico. Da questo è nata questa serie fotografica. 

In qualche modo, credo che il mio lavoro non possa che rispecchiare la realtà con cui mi confronto nella mia quotidianità. Questo aspetto dell’astrazione che ho sviluppato un po’ di più negli anni successivi penso sia dettato anche dall’evoluzione recente a cui abbiamo assistito del settore tecnologico, da un mio interesse crescente verso questo ambito e verso la digitalizzazione, e anche da tutti quelli che sono dei cambiamenti epocali, che stiamo vivendo, come lo sviluppo e la diffusione dell’intelligenza artificiale. Non riesco a pensare che il mio lavoro si evolva indipendentemente da tutti quelli che sono dei cambiamenti storici a cui assistiamo.

“Sitting Room”, Claudia Sinigaglia, cortesia dell’artista;
“Sitting Room”, Claudia Sinigaglia, cortesia dell’artista;

D.N. Nel 2022 torni a ritrarre le persone però le cancelli le facce! Parlo del progetto “Untitled (portraits)” che consiste in una serie di piccoli ritratti dipinti su fotografie ritagliate da riviste di business, dipinte sul volto e resi anonimi. “Il progetto esplora la costruzione dell’identità all’interno dei format di comunicazione contemporanei.” “Sospesi tra unicità e ripetizione, i ritratti di questa serie esplorano la fluidità e la complessità dell’identità nella sua rappresentazione.” Vorresti aggiungere qualcosa?

C.S.: Sì, diciamo che anche questo progetto ha in realtà più livelli di lettura. Vale forse la pena dire che ho sviluppato quel lavoro durante il periodo della pandemia, un periodo durante il quale noi non vedevamo più volti delle persone quando uscivamo di casa perché indossavamo le mascherine. Vedevo le persone tramite i social, sulle riviste, attraverso le fotografie. È stato un periodo in cui appunto il digitale è entrato prepotentemente nella nostra vita. Insieme a questo, anche i format di comunicazione visiva utilizzati dai media hanno acquisito una grande rilevanza diciamo nel nostro modo di percepire l’altro, cioè il nostro percepire le persone. Penso che questa situazione abbia contribuito alla nascita di un progetto come “Untitled (portraits)”.

“Untitled (portraits)”, Claudia Sinigaglia, documentazione Alessandro Zambianchi, cortesia dell’artista;
“Untitled (portraits)”, Claudia Sinigaglia, vista della mostra, documentazione Tom Nolan, cortesia dell’artista;

D.N.: Vorrei tornare ancora a due altri progetti poetici, “Untitled (Constellations)” (2015 – in corso) e “Atlas Coelestis” (2020). Nel primo, ti ispiri agli paesaggi urbani notturni. Le immagini compongono un diario di viaggio che ritrae architetture con finestre illuminate di diverse città – tra cui Tokyo, Kyoto, Shanghai, New York, Dubai, Milano, San Pietroburgo, Berlino, Londra – come fossero costellazioni. Del secondo progetto, “Atlas Coelestis”, racconti: “ricrei immagini di costellazioni tratte da mappe stellari illustrate in antichi atlanti celesti attraverso una serie di fotografie di frammenti di vetro. Le immagini che ne derivano sono un’interpretazione errata di presenze pulsanti che segnano un vuoto, in cui lo spazio oscuro è interrotto da riflessi luminosi.” 

Cosa significa per te questo riferirsi alle costellazioni? Possiamo aspettarci che lungo la conquista dello spazio cosmico, sarai tu a esplorare le dinamiche e il nostro processo di abitare?

C.S.: Sarebbe interessante! Il tema delle costellazioni rimanda a un’esplorazione di quello che è oltre il territorio conosciuto, lasciando spazio anche all’immaginazione. E forse anche facendoci riflettere in qualche modo sui limiti della nostra immaginazione, perché si tratta di un processo che si sviluppa inevitabilmente da qualcosa che conosciamo già. Le costellazioni nei miei lavori sono create partendo da qualcosa che appartiene alla nostra quotidianità. Nel primo caso si tratta di palazzi con finestre illuminate, nel secondo caso sono dei riflessi su dei frammenti di vetro, che creano un’immagine che ricorda le costellazioni rimandando a questo spazio infinito che c’è oltre il conosciuto.

D.N.: E cosa significa per te? Alla fine, sono le connessioni che crei tu, perché queste immagini non esistono senza la tua percezione.

C.S.: Certo. Sì, per me è una necessità di immaginare oltre quello che riusciamo a vedere. Credo sia una cosa importante, anche nel pensiero critico, di non fermarsi a una prima lettura delle cose, ma di cercare anche delle nuove domande, nuove risposte.

“Untitled (Constellations)”, Claudia Sinigaglia, cortesia dell’artista;

Redazione: Dobroslawa Nowak